Al Café Müller la prolusione di Allegri sulla commedia dell’arte
Prego! Prego… acomodeve!
Ci accoglie Arlecchino, mentre ogni spettatore tira fuori una scusa per non pagare. Ma dove sono i suoi amici, gli altri personaggi? Lo hanno lasciato solo… solo in teatro. E allora tanto vale che Arlecchino si sieda con noi, e che sia qualcun altro a occuparsi del palco. E infatti, togliendosi la maschera, sopraggiunge Eugenio Allegri. Collegnese classe 1956, diplomato alla Galante Garrone di Bologna, allievo di Lecoq, collega di Fo e Vacis, Allegri fa parte di quella popolosa famiglia di attori italiani specializzati nella commedia dell’arte, ovvero quel complesso sistema di improvvisazioni convenzionali dove la vigilanza rimane costante. Un teatro di fiera, di piazza, di strada; un’occasione carnascialesca che però sopravvive nell’eterno crepuscolo della prossima inevitabile quaresima. E sabato 16 gennaio Allegri ci ha raccontato, ci ha spiegato questa branca specifica dell’arte del palcoscenico: siamo al Café Müller, o almeno ci saremmo se i decreti di Palazzo Chigi non perpetrassero la politica proibizionistica nei confronti della cultura. Ancora una volta tramite computer, quindi, abbiamo visionato uno spettacolo della stagione diretta da Caterina Mochi Sismondi: Il grande viaggio nella commedia dell’arte è ora in streaming su Nice Platform assieme agli altri appuntamenti passati del cartellone.
Quella di Allegri, come dicevamo, è una lunga lectio volutamente affannata sull’esperienza tutta occidentale della commedia dell’arte: cosa accade quando il teatro tenta di affrontare e scacciare la tragedia attraverso la risata? Quale meccanismo s’innesca nella mente dell’astante se il dolore dell’esperienza terrena lo si affronta tramite il sarcasmo, per quanto velatamente amara possa risultare questa soluzione? Come reagire all’irrinunciabilità di quegli stereotipi che continuano ad attanagliarci, anche se ci dichiariamo emancipati, scevri da essi? Per rispondere a queste ed altre domande, Allegri ha imbastito un discorso che alterna segmenti recitati e intermezzi accademici, come un docente che da dietro una cattedra si trova investito di una grande responsabilità: assediare la cattedra stessa sinché un cospicuo gruppo di discenti non avrà colto la rilevanza culturale di quanto si sta disquisendo. E parte da lontano, Allegri: dalla proverbiale figura dello Zanni, dal quale emergono Brighella, Arlecchino, Pulcinella… per poi vagare in maniera piuttosto sfrenata dalla Lauda di Jacopone da Todi a Maria de Medici, che per prima porta a Parigi i commedianti italiani. E poi nel 1588 – lo sapevate? – Galileo Galilei scrive un discorso per gli accademici di Firenze perché vuole farsi assumere come matematico (si dice pagassero bene per quel posto), e immagina la collocazione dell’inferno al centro del globo terrestre, e poi elenca tutte le sue misurazioni: l’ampiezza dell’abisso stesso, l’altezza di Lucifero… ora, Galileo non verrà assunto, anzi verrà liquidato proprio come un servo qualunque, ma questa storia ci lascia qualcosa su cui riflettere: mentre di lì a pochi anni Shakespeare sarebbe sbarcato nei teatri di Londra, Galileo, per quanto inconsapevole, si occupava di teatro… e quindi possiamo capire come il gioco delle maschere ricusate (vedi lo Zanni, ma anche Galileo) sia il contenitore della nostra stessa esistenza, che noi crediamo di spendere tra colloqui di lavoro e misurazioni, ma in realtà stiamo semplicemente immaginando la realtà, raffigurando mondi plausibili e paralleli a quelli nei quali ci sviluppiamo. Di lì, Allegri decolla e non torna più: getta nel calderone l’Astolfo di Ariosto che va sulla Luna, il Baldus di Teofilo Folengo, Angelo Beolco e Alvise Cornaro, le opere di Beolco (per gli amici, Ruzzante). E poi ancora: il teatro di Plauto, Isabella Andreini e i Comici gelosi, Tristano Martinelli, Cyrano… e poi, inevitabilmente, Goldoni, l’ultimo afflato di commedia dell’arte che in sé già conserva il tramonto della stessa, rinata poi nel secondo Novecento con Strehler, Amleto Sartori, Dario Fo, e così via. Per concludere, Allegri delizia gli astanti con l’esilarante episodio dei re magi raccontato nel Mistero Buffo di Fo, tanto irriverente e politicamente scorretto da sbellicarsi anche se lo si conosce già.
In generale, Allegri si è rivelato ben più che soddisfacente essenzialmente per due ragioni. In primis, per la padronanza della mimica, della gestualità e della dialettica: perfette, impeccabili, persuasive. E, ancor di più, perché mentre lo si guarda si ha la percezione di aver incontrato qualcuno che nella vita fa quello che gli piace e che lo rende felice, e te lo racconta perché la sua passione esonda così tanto che non vede l’ora di contagiarti, e infatti quando si arriva alla fine ci si sente forse anche un po’ sospinti allo studio dell’argomento (a meno di non essere già ferrati, è chiaro). Ergo, questa lectio funziona bene perché coinvolge e lascia che la curiosità vada ad incastonarsi nel cervello dello spettatore, che sente l’urgenza di voler approfondire tutte le sinossi che gli sono state proposte.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia