ACCIAIO LIQUIDO al Franco Parenti di Milano
Ogni istante dell’esistenza è definito da una scelta. Che può cambiare il corso della vita. O interromperlo. Ma si è mai veramente liberi di compierla? È una domanda cardine e senza risposta quella che si pone Acciaio Liquido, che porta sulla scena del Teatro Franco Parenti la tragedia della Thyssenkrupp, l’acciaieria dove nel 2007 morirono sette operai.
Una vicenda evocata senza essere citata direttamente perché, come nel senso comune, si è già fatta archetipo e simbolo di eventi simili che quotidianamente si affastellano drammaticamente senza posa. Troppo spesso c’è un gruppo di uomini grigi, robotici, rigidi che accumulano alla rinfusa dati e indici, e scelgono. Scelgono di cancellare posti di lavoro, scelgono di chiudere fabbriche. Scelgono di non scegliere di garantire la sicurezza, perché la tabella costi e ricavi non lo suggerisce. Scelgono. Lo fanno strozzati dalla cravatta delle responsabilità. Quelle del ruolo e quelle della quotidianità minuta. E allora, tra figli a casa e alimenti da pagare, forse è solo la cravatta e la busta paga a separarli da quei sette operai che stanno per iniziare il turno di notte sulla linea dell’acciaieria. Sette vite sospese, sette futuri ancora da scrivere. Per un attimo fermi nella bolla del tempo in cui chiedersi chi si è davvero, cosa si desidera dalla vita, cosa li spinge nella direzione che alla fine prenderanno. Tutto si congela, nel momento in cui si stringono l’uno con l’altro e si scoprono uniti come solo la condivisione della fatica unisce.
Al di qua delle porte chiuse dell’acciaieria per un attimo c’è un limbo, dove tutto è ancora possibile. O lo sarebbe, se davvero le scelte potessero essere compiute senza le zavorre del dovere, della necessità, della morale. E così, quando il tempo torna a scorrere, è esistita davvero un’altra scelta che non fosse andare incontro al proprio destino? Ogni scelta porta le sue conseguenze. Questa porta sette morti, e lo strazio senza fine di chi resta, imprigionato nel “cosa sarebbe successo se”. Se si fosse usciti a cena con la moglie anziché allungare il turno, se si fosse andati a fare una chiacchierata con un amico, se un padre avesse posto una domanda mai posta. Ma tutto questo non è mai accaduto. E a chi resta rimangono le grida, disperate e stanche, di chi chiede giustizia. E la giustizia arriva, piccola, venale, formale. Simbolica, come non può che essere. E costringe anche i dirigenti a fare i conti con sé stessi e a scoprirsi nient’altro che meschinamente, visceralmente, banalmente umani. E i conti, alla fine, non tornano mai. Per nessuno.
Marco Di Stefano, in una densissima ora e mezza di spettacolo, scrive un testo potente, a tratti quasi lirico senza essere retorico. Un esempio a tutti i drammaturghi di come si può scrivere teatro dalla cronaca facendone qualcosa che sappia indagare sul mondo e il presente, in un modo che non permette alle coscienze di pacificarsi distinguendo i carnefici e le vittime, il bianco e il nero, in un mondo dove sono le gradazioni di grigi – lo segnalano anche i costumi – a dirci chi siamo. Un lavoro sanguigno, che mette in discussione e separa il concetto di responsabilità e quello di colpa. Non perché si cerchi di assolvere qualcuno. Al contrario. Il racconto della tragedia di Torino getta sale su ferite ancora tutte aperte, e lo dimostra una sala piena e il pubblico in piedi. Ma nelle vite di questi uomini, che si specchiano gli uni dentro gli altri, ciò che emerge è soltanto ciò che li fa uguali fino alla mimesi: l’umanità, lasciata nuda e cancellata, in una scena finale angosciosa che sfrutta il simbolo avvicinandosi alla realtà di corpi contorti diventati tizzoni a causa di scelte che, comunque sia, sono state compiute.
Se però Acciaio Liquido ha lo straordinario impatto che dimostra è merito dell’accuratissimo lavoro registico di Lara Franceschetti e di un “disegno scenico” dove ogni dettaglio è portatore di senso, costruito con attenzione e visivamente al posto in cui doveva essere, in una scena scarnificata dove alcune efficaci e stranianti incursioni video contribuiscono all’atmosfera angosciosa e disturbante. Gli otto attori, – Feredica Armillis, Angelo Colombo, Andrea Corsi, Paolo Garghentino, Giovanni Longhin, Francesco Meola, Claudio Migliavacca e Giuseppe Russo – sono un numero enorme per la scena contemporanea e dimostrano quanto invece possano rivelarsi produttivi questo tipo di investimenti, quando si può costruire qualcosa senza fare economia su ciò che occorre. Tutti sono molto ben calati nel ruolo multiforme che interpretano, e sanno dargli valore.
“Senza morti sul lavoro non ci sarebbe una cattedrale, un grattacelo”. Resta così una brutale provocazione, che interpella la parte della nostra coscienza che preferiamo tenere, spesso, in silenzio.
Chiara Palumbo