A teatro Basilica l’ode alle vite infinite di Elena Bucci
Vedere in scena un’autrice e attrice come Elena Bucci vuol dire avere l’occasione incredibile di assistere a uno dei più alti esempi di amore per l’arte teatrale; “un amore che innalza, che ruba ogni forza, ogni linea d’intelligenza”.
Lo sanno bene quegli spettatori che dal 3 a 5 maggio hanno varcato la soglia del teatro Basilica, divenendo partecipi, oltre che testimoni privilegiati, di un’ode alla vita, sospesa tra storia e invenzione, accompagnata dalle architetture musicali eseguite dal vivo da Christian Ravaglioli.
In una veste blu notte, l’attrice ha intonato a mo’ di ninna nanna il suo racconto, i cui fili della memoria hanno restituito una folla di quadri viventi, donne e uomini le cui facce, modi e gesti sono rimasti impressi nella sua immaginazione fin da bambina. Se è vero, come asseriva Čechov, che nelle regioni bianche della pagina, vi è qualcosa di misterioso, di non detto, di incommensurabile, è altrettanto vero che soltanto le parole stesse possono rivelarne la portata incandescente, quando abbandonata la distesa di carta della pagina si fanno carne e verbo.
La scrittura per Elena Bucci costituisce, così, il tentativo di tracciare qualcosa che è esistito dal vivo o di evocare qualcosa che non si è visto e che cambia ogni volta. Magiche evocazioni sono, dunque, le storie che hanno come protagonisti una simpatica novantenne, Aldino che con la cinepresa ridisegna una realtà più vera, un contadino che si ostina a non abbandonare la sua casa, anche quando il fiume inonda la campagna. Regina assoluta di un’ammaliante partitura ritmica, Elena inserisce alcuni elementi autobiografici, quando parla del suo viaggio alla scoperta di Bologna, dall’’iscrizione all’università di medicina, alla folgorazione per il teatro che l’ha portata a consacrare tutta se stessa al lavoro di attrice. Muovendosi a passi di danza, torcendo le mani sopra la testa con una grazia sovrannaturale, racconta di come abbia imparato i colori della voce, le imprecazioni, il dialetto come lingua arcana, da donne forti e anche un po’ burbere.
“Le rime mi son venute giù sempre facili, facili fin da quando lavoravo al bar dei miei genitori”– dirà ridacchiando la voce di uno dei tanti personaggi- fantasmi di questo surreale racconto. Lo spettacolo è anche un tributo alla natura, ai luoghi cari della Romagna, messi in ginocchio dall’alluvione del maggio 2023. Un palazzo abbandonato, una vecchia casa di campagna, una palude tra acqua e cielo si scollano dall’oblio per nascere a nuova vita.
“La mia terra- dirà l’attrice- è come un libro e ogni angolo del territorio è una pagina, ogni persona che passa in bicicletta è un romanzo, gli attori, un esercito di matti che vogliono fare il teatro dappertutto”. Riaffiorano malinconici ricordi, volti fraterni, come quello del caro Ivano Marescotti, amico e grande artista, meraviglioso cantore della Romagna, uomo d’invidiabile saggezza che non ha mai perso, nemmeno nei momenti più duri, come quando confiderà a Elena che anche ‘l’esperienza del morente è un’esperienza di vita’.
Con “Canto alle vite infinite” il teatro si fa strumento per comprendere e amare il mondo, mezzo per far valere le parole che si hanno. Non si tratta di vuota celebrazione del repertorio, ma di un tentativo potente di instaurare una comunicazione. Perché oggi più che mai è necessario salvaguardare concetti quali ascolto e relazione, rimettersi in discussione, confrontarsi dialetticamente con quanto avviene in scena, essere partecipi di un’esperienza.
Diana Morea