A colpi di parola: “La Grande Magia” di E. De Filippo, regia di Gabriele Russo
Va detto, La Grande Magia di Eduardo De Filippo era ed è una sorta di oggetto teatrale non identificato, un U.F.O. che lascia sorpresi e increduli perché al di là di una trama apparentemente semplice si scorge qualcosa di complesso e mostruoso. L’allestimento diretto da Gabriele Russo, va detto anche questo, resiste con coraggio alla tentazione di attualizzare il testo del 1948, dando al tempo stesso una vivida impronta di contemporaneità grazie all’habitat sonoro firmato da Antonio Della Ragione.
Tra gli ospiti di un grande albergo corre voce che la signora Marta Di Spelta (Alice Spisa), bellissima e corteggiatissima, sia tutto fuorché un esempio di fedeltà coniugale; il marito Calogero (Natalino Balasso), è convinto di essere tutto d’un pezzo e pertanto considera normale tenere la donna ossessivamente accanto a sé. Nello stesso hotel sopraggiungono il mago Otto Marvuglia (Michele Di Mauro) e Zaira (una strepitosa Sabrina Scuccimarra), complici sulla scena e nella vita, insieme al loro mirabolante arsenale di trucchi e di illusioni. Attorno alle due famiglie, ciascuna bella e infelice a modo suo, gravita una folta schiera di personaggi (Veronica D’Elia, Gennaro Di Biase, Christian di Domenico, Maria Laila Fernandez, Alessio Piazza, Manuel Severino, Anna Rita Vitolo).
Durante uno dei vari (vani) giochi di prestigio accade l’irreparabile: Marta si sottrae al controllo del marito, raggiunge il proprio amante e fa perdere le sue tracce. Calogero dovrà quindi scegliere se accettare la verità esibita sotto i suoi occhi, oppure rifugiarsi in una bolla, una versione dei fatti inverosimile che gli risparmi il dolore del tradimento. Anche per l’illusionista, del resto, si schiude lentamente un bivio: ammettere l’inganno, oppure alimentare quel perverso convincimento e vedere fino a che punto si può portare un essere senziente a credere in una palese menzogna.
Il racconto ci trasporta dall’hotel alla caotica ma calorosa abitazione della famiglia Marvuglia, cui corrisponde una casa Di Spelta arida e spoglia. Il terzo atto, nella sua essenzialità quasi scheletrica del linguaggio e della scenografia, vale da solo l’intero spettacolo: Balasso e Di Mauro ingaggiano un vero e proprio duello a colpi di parola, il pieno e il vuoto più ostinato a denti stretti, il mare scintillante contro il muro più ruvido.
Va detto, infine, che la vicenda che travolge il destino di Calogero Di Spelta racchiude una parabola – inquietante nel mondo di ieri, agghiacciante in quello di oggi – su quanto possa essere fragile il senso di realtà nella vita individuale e collettiva. Capaci di intendere e di volere, oppure capaci di intendere ciò che vogliamo mentre il resto semplicemente ci convinciamo che non esista? La soluzione dell’enigma sembra a portata di mano ma sfugge ogni volta tra le dita.
“Il fatto che Eduardo stesso abbia vissuto l’amarezza dell’incomprensione del pubblico rivela quanto questo testo sia intriso di profondità e potenzialità” sottolinea Russo nelle note di regia, aggiungendo poco oltre: “Smarriti i personaggi, smarriti gli spettatori, smarriti gli uomini e le donne (…) nel continuo fondersi del vero e del falso.”
Visto al Teatro Sociale di Trento, venerdì 10 gennaio 2025.
Pier Paolo Chini