A colloquio con Stefano Vergani: l’ex batterista punk racconta la Sicilia, il margine di bellezza e la fortuna
Abbiamo chiacchierato un po’ con Stefano Vergani, di cui abbiamo già recensito l’ultimo disco (https://www.modulazionitemporali.it/mi-sono-giusto-allontanato-per-un-attimo-lultimo-album-di-stefano-vergani/). Sembra timido, riservato, ma attraverso ogni sua parola emerge la ponderazione, l’equilibrio dei pensieri tipico delle persone di cui ci si può fidare. Ecco cosa ci siamo detti.
D.M.A. – Di te si hanno poche nozioni biografiche. Avresti voglia di raccontarti in breve? Come sei approdato alla musica?
S.V. – Suono da quando ero bambino. Nella mia famiglia si ascoltava molta musica, soprattutto quella italiana degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Quando avevo sedici anni ho messo su una band con i miei amici; all’epoca ero un po’ un batterista punk di periferia. Poi ho capito che quel ruolo non mi rendeva molto, e allora ho iniziato a scrivere delle cose mie. Lo facevo quasi per gioco, anche se quando si è giovani si pensa sempre di scrivere benissimo. E da lì è iniziato tutto. Ho inciso il primo disco, poi sono arrivati gli altri.
D.M.A. – Come arriva un brianzolo a trasferirsi in Sicilia?
S.V. – È stata una concatenazione di eventi fortuiti a portarmi in Sicilia. Doveva essere una scelta temporanea, e invece poi si è trasformata in una soluzione di stabilità. Avevo bisogno di cambiare aria, nulla di più: le coincidenze mi hanno condotto qua e mi sono trovato bene, così sono rimasto.
D.M.A. – Domanda forse banale ma d’obbligo: quali sono le tue ispirazioni?
S.V. – Musicalmente sono legato a tutto quel che è successo a livello internazionale tra gli Anni Cinquanta e i Settanta. Subisco certamente il fascino dei grandi classici: Dylan, Cohen, i Beatles. Anzi, più vado avanti più faccio fatica a trovare qualcosa che mi emozioni o che almeno mi convinca. Ancora oggi attingo molti pensieri dalla musica del passato, un passato indefinito ma inquadrabile nel margine di bellezza che ormai abbiamo ampiamente oltrepassato. E poi leggo tanto: dai gialli ai romanzi più impegnati. Però non ho un autore di riferimento, sono sempre molto legato alle ultime scoperte: di recente per esempio ho letto Il figlio del secolo di Scurati, e poi mi è piaciuto tantissimo Patria di Fernando Aramburu. Sarebbe bello, però, avere ancora più tempo da dedicare alla letteratura.
D.M.A. – Cosa pensi di quella musica che, come hai detto tu, è andata oltre il margine di bellezza del passato?
S.V. – Sinceramente, la piega pop di questi decenni mi lascia un po’ spiazzato. Io poi sono molto curioso, ascolto moltissima musica che non mi piace, per capire cosa succede, per capire quali sono le novità sulla scena. Ma francamente la strada che ha intrapreso tanta musica, in Italia come all’estero, mi spaventa un po’.
D.M.A. – Ci spieghi cosa racconta il tuo ultimo disco, Mi sono giusto allontanato per un attimo?
S.V. – Allora, parto col dire che si tratta di un disco impegnativo. Non impegnato, ma impegnativo sì: bisogna affrontarlo in un momento di pace, non può essere il sottofondo in un bar. Non perché il linguaggio sia difficile, ma perché le tematiche sono molteplici: si va dalla semplice canzone d’amore e si arriva a concetti più complessi, come l’indifferenza e la deviazione che ultimamente stanno caratterizzando la nostra società. Tante canzoni riflettono su quanto ci siamo abbruttiti, su come tutti urlino sempre senza ascoltare mai. E di conseguenza poi sono passato al mio personale smarrimento di individuo calato in questo sistema e che desidera ardentemente porre un punto e andare a capo. Ho cercato di raccontare, quindi, anche il bisogno di ripartire per un orizzonte nuovo, e spero di esserci riuscito. Mi piacerebbe che chi ascolta il disco percepisca la mia volontà di riparare la vita dal vociare sempre più impetuoso del mondo.
D.M.A. – La seconda canzone del disco s’intitola Margot. Ma chi è Margot?
S.V. – Quella canzone è stata la prima che ho composto per il disco. Con lei è emerso un testo molto diverso da quelli che scrivevo in passato, e il risultato è una personale versione dell’inno alla gioia, dove Margot è una donna tra tante, un riferimento femminile di finzione scelto per caso. Con Margot volevo esprimere un concetto tanto facile quanto ampio: nel bene e nel male, nonostante tutto secondo me siamo molto fortunati a vivere su questo lembo di terra. E spesso non ce ne accorgiamo, perdiamo tempo lamentandoci senza neanche cercare di contribuire al cambiamento che vorremmo.
A cura di Davide Maria Azzarello