“A bocca chiusa” – La fiaba nera di Stefano Bonazzi
“…sapeva, ma non diceva nulla. Vedeva la serenità farsi strada nei miei occhi e questo le bastava.”
La storia di una famiglia, quelle azioni quotidiane che si ripetono, che conosciamo a memoria, a cui non facciamo più caso. Una periferia, l’estate calda, un bambino di dieci anni con i suoi giochi e poi ci sono loro, le ombre. A volte sono i genitori, a volte i nonni, oppure i figli. Altre volte, siamo proprio noi. Eppur ci somigliamo tutti, non si lacera quel filo sottile che passa da una generazione a quella dopo, passando quel testimone che ci danno in mano da bambini e che ci porteremo dietro per sempre, con le azioni o semplicemente con i ricordi. Non si lacera, per rompersi, quel cordone ombelicale, nemmeno quando proviamo a fuggire o a uscirne fuori, alla ricerca della luce.
E poi arriva chi prova a liberarci da questa gabbia, dalle negazioni e dal dolore. Ma proprio quando tutto sembra quasi alla fine, ecco che il castello colorato – costruito con i Lego – comincia a tremare e a crollare, fino al momento dell’orrore. Ed è da qui che tutto cambia, per poi ritornare inesorabilmente come prima, soprattutto se il male lo riusciamo a vedere, sentire, toccare con le nostre stesse mani, come facevamo da bambini.
Stefano Bonazzi tesse una storia con mano lenta, precisa e sofisticata; ne marca ogni linea, gestendo ogni sorta di particolare, per poi scaraventarci improvvisamente nel vortice del terrore, riuscendo a soffocare ogni urlo di una snervante attesa, che si insinua sempre più tra le pagine di questo noir dell’anima, edito da Fernandel, “A bocca chiusa” (2019, pp. 252 euro 15)che torna dopo dieci anni dalla prima pubblicazione, lasciandoci un messaggio sempre più vero, sempre più attuale.
Marianna Zito