Spettacoli e Festival Hors: il Teatro indipendente del Teatro Litta di Milano
“Questa è la storia di una giornata particolare di un Festival speciale, come dovrebbero essercene di più, sempre di più…”
Dopo il successo della passata edizione Festival Hors, e più nello specifico il Teatro Litta e Cavallerizza, sono stati dal 2 al 5 ottobre la Casa del Teatro indipendente milanese. Questa edizione, in particolare, ha voluto indagare attraverso il Teatro (ma anche concerti, laboratori, incontri, spazi espositivi e interattivi, modalità one-to-one non convenzionali ecc.) la relazione tra padri e figli in senso lato, focalizzandosi non soltanto sull’aspetto sociale di questo tema ma analizzando anche il possibile conflitto nel passaggio generazionale in ambito artistico e culturale.
Grazie allo straordinario lavoro di due eccellenti curatori artistici, Stefano Cordella e Filippo Renda, e di tutto il team organizzativo, il pubblico ha avuto la possibilità di “assaporare” sei progetti selezionati, e di vedere il debutto del progetto nato dalla collaborazione tra alcune delle compagnie selezionate nel corso della scorsa edizione attraverso il progetto “Mosaico”. In più, grazie all’inedito Laboratorio di Microdrammaturgie per Foyer condotto da Liv Ferracchiati, gli spettatori hanno avuto l’opportunità di vivere una serie di storie incredibili, in bilico tra Fake e Verità, in modalità strettamente “one to one”.
A proposito di storie questo è il racconto di una giornata particolare, una delle quattro, e inizia con “Sea Wall”, in cui un padre ci narra una storia della sua famiglia. In questo bel monologo intimo di Simon Stephens un bravissimo Fabrizio Lombardo, che ne è anche il traduttore insieme a Francesco D’Antoni, individua una chiave delicata, quasi leggera, per introdurre domande invece pesantissime sulla natura stessa della vita.
Domande che il Teatro ci costringe, continuamente e inevitabilmente, a porci, come nel successivo “Là si sta bene dove noi non siamo”, di Ettore Oldi, interpretato dallo stesso Oldi insieme a Silvia Napoletano. I due, impegnati a provare una scena di “Padri e Figli” di Turgenev, trovano nel testo le stesse domande esistenziali che riguardano la loro vita personale e riescono con notevolissima bravura ed efficacia a trascinare anche noi in una coinvolgente centrifuga tra realtà e messa in scena, in cui tutto è finzione e verità allo stesso tempo e dove tutto può accadere. Anche che un frammento di realtà, piccolo ma acuminato come una scheggia di vetro, irrompa imprevisto nel gioco scenico e ci mostri attraverso una goccia di sangue (vero) la realtà nascosta dietro l’apparenza della vita in scena.
Un’apparenza che spesso, come il Teatro stesso, creiamo per esorcizzare le nostre paure, o per creare un dialogo con noi stessi o con chi, avendolo perso, continua ad abitare dentro di noi. Ce lo raccontano bene Nicolò Valandro e Gianluca Dario Rota (Fuoricorso Teatro), che riprendendo l’esperienza del signor Itaru Sasaki, mettono a nostra disposizione una sorta di cabina telefonica per lasciare un messaggio per parlare con chi non c’è più. “C’è del marcio nella panda” è appunto il frutto di queste testimonianze, un “work in progress” in cui siamo chiamati, se vogliamo, a prendere parte con il nostro messaggio. Autentico. Teatrale.
Perché il Teatro, e forse solo il Teatro, può riuscire nell’impresa apparentemente impossibile e paradossale di mettere in scena un’assenza. Ci riesce sicuramente, in modo a dir poco grandioso, “Profumo”, prima produzione frutto della selezione del Festival Hors dello scorso anno. Lo spettacolo, davvero potente, riesce nell’impresa di frantumare ogni confine. Quello tra realtà e messa in scena; tra attori e personaggi; tra palcoscenico e platea; tra interpreti e pubblico; tra prove e spettacolo; tra fake e realtà; tra il già citato “là dove noi non siamo in cui si sta bene” di Anton Čechov e il presente; tra presenza e assenza; forse, financo tra l’aldiqua (interpretato dai bravissimi Salvatore Aronica e Ludovico D’Agostino, fratello Medio e Piccolo, un super Stefano Barra, fratello Grande, e una centratissima Laura Valle, la madre) e un aldilà assente ma che forse tutto governa, un Dio-padre fuori scena che ci giudica e forse ci guida, forse no, ma su cui non si può contare. Il testo di Gianpaolo Pasqualino, con la regia di Daniele Turconi, funziona davvero ed è, comunque la si pensi, una delle cose più interessanti e “contemporanee” viste in scena da diverso tempo a questa parte.
Anche i Festival, come gli spettacoli, funzionano quando le idee ci sono. Festival Hors è un’ottima idea molto ben realizzata. Lunga vita al Festival: aspettiamo già il prossimo.
A.B.