10 mg al Gobetti di Torino: il commercio del dolore e il culto della pillola
Fino a domenica 13 giugno, al Teatro Gobetti di Torino, è in scena 10 mg. La pièce è prodotta dallo Stabile; il testo è di Maria Teresa Berardelli (menzione speciale al Premio Hystrio del 2015). In scena: Andreapietro Anselmi, Carolina Leporatti, Davide Lorino, Francesca Agostini, Lucio De Francesco. In regia, Elisabetta Mazzullo. La prima assoluta è stata il primo giugno. La trama è presto detta: cinque proletari, o volendo anche borghesi, si barcamenano nella società contemporanea tra lavoro, apparenze, genitorialità e, soprattutto, malattie. Una coppia non sa come aiutare il figlio iperattivo, una ragazza è stata appena assunta come informatrice scientifica del farmaco e il suo datore di lavoro si comporta in maniera piuttosto deprecabile. Tutti quanti, a turno, come dei moderni pellegrini, vanno dallo stesso medico, che a prescindere dal tipo di stress prescrive la stessa pillola: dieci milligrammi la mattina, la sera, dopo colazione, dopo cena. Queste pillole, presumibilmente magiche, vengono reclamizzate dall’informatrice attraverso una pubblicità che vede protagonista la coppia col figlio problematico, e il gioco d’incastri prosegue in una matrioska drammaturgica d’intrecci ben strutturati. Tutti i personaggi sono però effettivamente accomunati da un unico malanno: la visione distorta del concetto di dolore, dalla quale discendono altrettante idee erronee in termini di funzionamento della cura, con tutte le sue conseguenze. La malattia – o meglio, il dolore, per l’appunto – viene commercializzata, sottovalutata e quindi (tendenzialmente) rimane irrisolta, a meno che il malato non comprenda e accetti e scelga di sciogliere le vere problematiche, per lo più esistenziali, alla base del proprio malessere.
Un bambino con deficit d’attenzione, una lavoratrice stressata, un padre preoccupato, una madre apprensiva, un capoarea egoista e venale, un medico ottuso e disinteressato. Effetti collaterali: intorpidimento mentale. Stiamo meglio o non sentiamo più niente? Superare il dolore o anestetizzarlo assieme a tutte le altre sensazioni? Guarire o aggirare i problemi? Ascoltare o eludere quella parte di noi che chiede di cambiare ritmi, priorità? Tramite una narrazione da sceneggiato televisivo, poco metafisico e molto truce, Berardelli e Mazzullo ricreano la vita di molti spettatori inconsapevoli, drogati o comunque dipendenti da sertraline varie ed eventuali. La media borghesia è ovviamente la più colpita da questa logica: hanno la casa al lago ma poi non ci vanno mai, e al posto di rilassarsi si calano pillole su pillole. A livello recitativo, lo spettacolo parte forse vagamente sottotono ma migliora in un crescendo, soprattutto quando viene inscenato il lutto (causato, in parte, proprio dalla cura). Quel che rimane sicuramente più impresso è l’assetto estetico della performance. Infatti, al netto dei costumi non proprio entusiasmanti, la scenografia di Anna Varaldo si rivela oggettivamente affascinante, geniale, azzeccatissima: due scaffali mobili e altissimi (come quelle scale da biblioteca o da loculi), bianchi e asettici, pieni di confezioni colorate e ordinate di medicinali anonimi. Anche le luci di Jacopo Valsania aderiscono a questo sistema visivo, e collaborano affinché la resa sia armonica. Alla fine dello spettacolo, poi, un flebile lucore, forse una speranza? Il dottore, che sembrava essere l’unico refrattario all’afflizione, l’unico invincibile (ma non per questo sano) si redime consigliando al suo ultimo paziente non l’ennesima dose di pastiglie, ma una vacanza, lontano da tutto e da tutti, per disintossicarsi da un ordinamento che lui non può cambiare, ma dal quale (insieme) si può fuggire.
Una precisazione inevitabile: questa recensione (così come lo spettacolo) non vuole screditare il lavoro certamente encomiabile di molti dipendenti del sistema clinico planetario. Sappiamo perfettamente (e gli eventi di questi ultimi due anni lo dimostrano) che la medicina aiuta gli umani a vivere un’esistenza più lunga. Purtuttavia, per svariate ragioni affrontabili in altra sede, ad alcuni di noi sorgono degli umili dubbi in merito ai metodi con i quali si cerca di risolvere l’esperienza del dolore fisico e psicologico. Per questo motivo, quindi, questo spettacolo merita di essere conosciuto e rispettato, perché gli intenti sono nobili. D’altronde, alzi la mano chi non ha mai provato un moto di genuino e comprensibile timore dopo la lettura, anche parziale, di qualsiasi bugiardino.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia